Trattandosi di cinema (e di cinema che con la pittura vuol confrontarsi; e non con la storia, e nemmeno l'aneddoto) la cosa importa poco. Ad importare è invece che la diciassettenne Griet di famiglia decaduta e protestante sia incarnata dalla Scarlett Johansson di LOST IN TRANSLATION. Visto che, più che un film sul pittore e la sua modella (ricordate LA BELLE NOISEUSE di Rivette), più che un film sul mistero del pennello che si appropria del proprio tempo (ricordate VAN GOGH di Pialat...) questo è un film su un'attrice. Sul suo modo di conquistarsi la luce, di ridarla agli ambienti sapientemente ricreati dalla fotografia di Eduardo Serra, dalle sontuose scenografie in pieno trip oscarizzabile. Tutto il resto (maestro platonico, moglie comunque gelosa, suocera manipolatrice, figlia pestifera, collega libidinoso) finisce per non contare più di tanto.

Nei silenzi lunghi che il regista ha il giudizio di lasciar scorrere è la modella, e non proprio il film, a penetrare il mistero della creazione. Ed a trascinare con sé altri scampoli tematici del film, emancipazione femminile allo stato embrionale o rapporto schiavo-padrone che si voglia. Lei insegna a guardare il Bello; e conquista il maestro raccontandogli che le nuvole non sono bianche, ma blu, gialle e grigie. Il bello, Webber, si diletta ad illustrarlo.